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Parto anonimo: nell'attesa della legge

17.02.2017

Il giudice non può negare al figlio la cui madre naturale aveva dichiarato di voler rimanere anonima, l'accesso alle informazioni sulle sue origini, senza avere precedentemente verificato, con le modalità più discrete e meno invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l'anonimato, anche se il legislatore non ha ancora disciplinato le modalità di interpello della madre.

Gli organi giurisdizionali, che hanno una funzione costituzionalmente diversa da quella dell'organo deputato a legiferare, devono applicare direttamente il principio espresso a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 28 della legge sull'adozione, cercando di trovare nel sistema le regole più idonee per la decisione dei singoli casi.

E' quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 1946 del 25 gennaio 2017.

La Corte di Cassazione, su richiesta del Procuratore generale, ha chiesto, ai sensi dell'art. 363 comma 1 c.p.c., l'enunciazione del principio di diritto al quale i giudici della Corte d'Appello di Milano avrebbero dovuto attenersi nel decidere il caso di un figlio, nato da parto anonimo, che aveva chiesto al Tribunale di potere verificare, attraverso un interpello riservato, la persistenza della volontà della madre di non essere nominata.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di sentire, su richiesta del figlio, la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell'art. 30 D.p.r. n. 396/2000, ai fini di un'eventuale revoca di tale dichiarazione.

Si è riconosciuto così il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini.

La pronuncia è stata sollecitata da una decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo (caso Godelli c. Italia sentenza 25.9.2012), la quale, ha ritenuto che la legge italiana fosse troppo orientata verso la tutela della madre a discapito dei diritti del figlio, perché non consente di effettuare un bilanciamento delle diverse esigenze, al fine di garantire ai soggetti coinvolti il pieno rispetto del diritto alla vita privata e familiare assicurato dall'art. 8 della Convenzione europea.

In attesa dell'intervento legislativo, alcuni Tribunali hanno dato immediata attuazione al dictum della Corte, delegando il Giudice relatore a verificare l'attuale volontà della madre biologica dei soggetti ricorrenti.

Altri uffici, tra cui quello della Corte di Appello di Milano, non consentivano, stante l'assenza di una legge che ne disciplinasse le modalità, di compiere ricerche e interpellare la donna che aveva deciso di partorire nell'anonimato e di dare in adozione il proprio figlio.

Secondo la Corte milanese, la sentenza della Corte Costituzionale non sarebbe stata immediatamente efficace, a causa dell'esplicita riserva di legge in essa contenuta.

Nel testo si legge, infatti, che è "compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica".

La sentenza della Corte Costituzionale è una pronuncia additiva di principio, ossia il dispositivo, oltre alla dichiarazione d'incostituzionalità, detta un principio sulla cui base il legislatore dovrà fondare la futura azione legislativa e il giudice dovrà basare la propria decisione del caso concreto.

In definitiva, secondo quest'orientamento, rientra nell'attività discrezionale del legislatore la scelta delle varie modalità per l'interpello della madre anonima, scelta che non può essere riservata all'organo giurisdizionale, anche per evitare diversità di prassi per ogni ufficio giudiziario.

La Cassazione ha ritenuto fondata la richiesta del Procuratore generale e non corretta l'interpretazione della Corte milanese.

La sentenza n. 278 del 2013, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 28 della legge sull'adozione è una pronuncia di accoglimento, pertanto non contiene soltanto l'addizione di un principio, ma anche una regola chiara circa la possibilità d'interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio.

Il mancato intervento del legislatore non può giustificare la violazione di un diritto del figlio, ormai riconosciuto mediante la declaratoria d'incostituzionalità.

La norma dichiarata costituzionalmente illegittima - che impediva la possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare un procedimento finalizzato a raccogliere l'eventuale revoca della dichiarazione originaria da parte della madre naturale - cessa di avere efficacia e non può essere più applicata dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Il giudice che nega al figlio l'accesso alle informazioni sulle sue origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, di voler rimanere anonima, senza avere precedentemente verificato, con le modalità più discrete e meno invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l'anonimato, continuerebbe a dare applicazione al testo dell'art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983.

Sostanzialmente, la disposizione dell'art. 28 comma 7 non è rimasta identica, perché esiste nell'ordinamento ma con l'aggiunta di questo principio ordinatore, che fissa un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre.

Gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore intervenga, devono applicare direttamente quel principio, cercando di trovare nel sistema le regole più idonee per la decisione dei singoli casi.

Secondo la Cassazione, che ha statuito a sezioni unite, la riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce alla normazione primaria e quindi non esclude l'operato del giudice comune, il quale ha un ruolo costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore.

Il giudice è chiamato a individuare e dedurre la regola del caso concreto a lui sottoposto, desumendola dai testi normativi e dal sistema, di cui fa parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva.

In difetto di ciò, si determinerebbe un deficit di tutela riguardo a un diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, mantenendo una situazione di violazione analoga a quella constatata dalla CEDU.

(Altalex, 13 febbraio 2017.

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